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Vivere e separarsi

21/03/20110

Vorrei cominciare situando l’essere umano davanti alla prima e più spaventosa separazione della sua carriera : quella della nascita. Prima di tutto c’è la morte dell’embrione, che è l’inizio della persona. La nascita equivale a una specie di espulsione dal paradiso. Il bambino è cacciato dall’ambiente a cui era abituato da sempre; deve obbligatoriamente uscire da un ambiente comodo, ovattato, protetto dal chiasso, dai rumori e dagli urti, uno spazio sicuro in cui non ci sono sorprese, un ambiente confortato dal tepore (una specie di riscaldamento centrale mantiene una temperatura ideale per lo sviluppo fisico e psichico dell’embrione). Nell’utero l’individuo è lusingato dalla carezza del fluido in cui si trova; gli sono risparmiate le incertezze, perché è automaticamente nutrito a spese dell’organismo della madre, in cui è contenuto. Nell’ambiente in cui si trova c’è la presenza stabile di un ritmo rasserenante – il battito del cuore – e un buio in cui il bambino può leggere la presenza, muta ma costante, di un compagno che lo accetta. Poi il colpo: l’individuo è separato da quest’ambiente protettivo, privato dalla compagnia di questa placenta, buttato nel mondo.

Questa è la prima e la più sofferta delle separazioni che affrontiamo nella nostra esistenza. L’unica separazione da affrontare che abbia uno spessore di pari importanza sarà l’ultima: la morte. Notate bene che non sto parlando di una determinata nascita, che si svolga in particolari circostanze, o di una situazione che accidentalmente venga a costituire un trauma permanente: sto parlando della nascita in sé, dovunque, comunque, per tutti. Essa equivale all’uscita da una situazione di apparente protezione; vuol dire essere buttato violentemente in un mondo disturbante, irregolare, esposto e pericoloso. Non è strano che in tutte le culture di tutti i tempi esista un mito del paradiso perduto – dal concetto biblico del giardino dell’Eden alle teorie di Engels e Marx sul comunismo primitivo: a livello individuale ognuno di noi ha vissuto il paradiso e lo ha perso. Questa prima separazione diventa allora il modello di una situazione incontrata in seguito ripetutamente. Si stabilisce un equilibrio quando un individuo riesce a costruirsi una zona protetta, una situazione di difesa. E’ la propria crescita stessa che lo spinge a uscire, a rischiare. Spinto da dietro o risucchiato davanti, vittima di un collasso, di un apparente terremoto – come devono sembrare le contrazioni dell’utero per il bambino – uno si trova obbligato a uscire nella realtà volgare, sporca, accecante, chiassosa, sgradevole. Certo questa situazione è, come quella originaria, illusoria: il grembo sembra protetto, ma è soltanto una membrana di carne, di epidermide, che ci separa molto precariamente da un calcio, da una botta, dal fuoco, da una caduta. L’embrione è protetto in senso molto provvisorio e parziale. Allo stesso modo, le successive protezioni che costruiamo in questa vita, che non è altro che una successione di nascite, essendo la crescita nient’altro che una successione di separazioni, sono ugualmente illusorie. In realtà se rimani nel bozzolo del grembo, marcisci; se rimani nella situazione difesa, sicuramente muori. Se esci nella realtà corri il rischio di morire, ma anche di vivere.
In generale, anche se numerose volte siamo costretti a subire questo trauma di nascita, perché sempre di nuovo ci ricostruiamo una specie di grembo, si può dire che ci sono dei nessi primari con cui ci difendiamo. Appena nati, ricominciamo la regressione, la costruzione dell’ovatta, cioè della difesa. Questa illusione di difesa è impermeata soprattutto su ciò che noi chiamiamo mente. Costruiamo un utero sostitutivo soprattutto tramite la stupidità, l’ignoranza o quella che possiamo chiamare la voluta ottusità, cioè il non sapere, il non accorgersi, il non recepire, il non essere consapevoli, non essere presenti. Pongo un muro tra me e la realtà in cui vivo; mi isolo per difendermi. A questo fine sono disponibili tanti mezzi, per esempio, regole, idee, modelli, per interposizione tra me e quanto va oltre i miei preconcetti e pregiudizi. C’è una chiacchierata continua che occupa la mia attenzione, un nastro che non smette di correre nella mia testa. Quasi sempre presto attenzione a queste aspettative, idee e immagino, piuttosto che al reale. Navigo in generale in un mare di illusione proiettiva, piuttosto che prendere contatto con quel che c’è. Questi disturbi del contatto, nei quali usiamo la mente per impedire o interrompere il contatto, fanno parte di quello che ho chiamato ottusità, stupidità voluta. Noi li costruiamo per crearci un utero sostitutivo finto, in cui viviamo per rimpiazzare il grembo perduto, non potendo o piuttosto non volendo subire troppo la realtà. Due forme specializzate di questa ottusità, a servizio dell’ignoranza primaria, sono da una parte l’odio, aggressività, con cui in continuazione respingo la realtà, ponendo una divisione tra me e l’altro, e dall’altra parte quella specie di attaccamento, quell’avidità con cui mi appiccico a quello che è stato gratificante, rifiutando di nascere, di separarmi, di scindermi da quello che io insisto a vivere come parte di me stesso. Questa avidità o attaccamento, allo stesso modo dell’odio mi separa dagli altri: gli altri che sono vivi, presenti, che parlano e incidono su di me, che vogliono, che danno, che esigono, che rappresentano quindi una realtà non facile da affrontare. Allo stesso tempo, con l’avidità e l’attaccamento trasformo gli altri e la realtà in generale in una placenta; cioè io sostituisco quell’altro che mi era accanto e vicino con altre persone; insisto nell’avere l’altro con me, per me, a mia disposizione, di immobilizzarlo e tenerlo dove voglio io. Sto suggerendo con ciò che questi rapporti di dipendenza, che conosciamo bene – l’attaccamento ai soldi o al sesso opposto, l’insistenza a fagocitare i figli, il rifiuto di separarsi dai genitori, la dipendenza dall’autorità, l’uso dell’altro per sostenermi, il rifiuto dell’autonomia – non sono altro che un tentativo di ricostruire la placenta, vale a dire quella perenne presenza, vicina e disponibile, che mi ha accompagnato durante il lungo soggiorno nell’utero.  In ogni caso il comportamento sano e funzionale è relazionale. Non è quello costruito sull’isolamento. La salute è connessione. Si stabilisce un ciclo: prima ho sensazioni e bisogni, cioè voglio; poi agisco, mi estendo o esco per fare; e finalmente torno a me stesso. Per esempio: ho fame, mangio, smetto. Procedo ogni volta da un bisogno, una voglia, una sensazione, un sentimento; entro in contatto; si crea una interazione; poi torno alla mia situazione originaria, chiaramente alterato dall’interazione e lasciando una alterazione nell’ambiente. Il comportamento sano è relazionato per il semplice fatto che l’organismo è sempre in un ambiente. Non esiste organismo che non abbia un ambiente, come non esiste un ambiente – almeno conosciuto da noi – se non c’è un organismo che lo conosca. Allora, quel che io ho chiamato la mente, questa mente che ricostruisce un grembo fatto di ottusità, che si separa con aggressività dall’ambiente, che si attacca con avidità all’altro sottomesso al suo uso, ricostruendo così la placenta, questa mente contribuisce a creare un’autoipnosi o autolimitazione. Non è adattiva; tende a costruire un distacco fisso, mediante un equilibrio statico, crea una gabbia, una scatola, un recinto in cui uno vive riproponendo quel soffocamento rassicurante che era il grembo.

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