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Le vite degli altri

24/09/20090

“Le vite degli altri”, come l’omonimo film in cui una spia assiste, spettatore silente, alla vita dei suoi indagati. E’ quello che sta avvenendo nella gran parte delle nostre case, nelle nostre vite. Una connessione ad internet, una password, un indirizzo mail e siamo su Facebook, oggetti e soggetti di visione, di pubblica conoscenza.

Niente di male, uno strumento di comunicazione e interazione, più vivo di una mail e più distante di una telefonata, ma forse, ad uno sguardo più sottile, qualcos’altro dietro si cela, forse una rivoluzione delle relazioni umane ed un nuovo ordine che le contiene e le dirige verso una dimensione sempre meno umana e sempre meno condivisa. Non voglio fare il disfattista, il critico a tutti i costi, d’altronde non sarebbe coerente, anch’io usufruisco del web, ho voluto creare un sito, un forum, al quale decine di persone hanno partecipato e del quale decine di persone hanno fatto un luogo di incontro, talvolta più intimo ed autentico di quelli che ci ritroviamo a vivere nella realtà quotidiana.

Ma Facebook credo sia un fenomeno di altra natura, in cui ci si mette in vetrina mostrando esattamente quello si vuole mostrare e lasciando che gli altri entrino nei nostri spaccati di vita attraverso una fotografia, un commento, una canzone. E noi? Noi facciamo lo stesso, leggiamo profili, osserviamo foto, leggiamo le frasi della giornata e ci ritroviamo, in un attimo, nella serata di un altro, nella vacanza di un altro, nella storia di un altro. E l’altro chi è? Ciò che è strano e paradossale è che l’altro, spesso, lo conosciamo appena, l’altro è uno che conoscevamo anni fa e che a stento oggi salutiamo, l’altro è uno con il quale magari avremmo poco da dirci anche nel breve tempo di una pausa caffè. Contrariamente ad una mail il senso dell’alterità in un social network come questo è più presente, più conservato, ciò che è altro da me ha un volto, un nome, una storia ed io posso guardarla, spesso però senza parteciparvi. Un modo comunque inconsueto di avvicinarsi se consideriamo che quelle stesse persone, talvolta, non condivideranno con noi nulla della nostra vita, dei nostri vissuti, non sapranno mai com’è un nostro abbraccio, un nostro sorriso o una nostra lacrima perché semplicemente non le vedranno mai e noi non vedremo le loro.

La triste impressione è che sia sempre più la distanza lo spazio delle nostre relazioni, di qualunque natura esse siano, ma una distanza diversa da quella che potevamo sperimentare nelle nostre vite in un recente o lontano passato. Esistono, infatti, distanze e distanze, distanze che rivelano ed altre che semplicemente allontanano, distanze che fanno crescere ed altre che semplicemente isolano. La distanza di oggi non è più quella ottocentesca che conteneva il desiderio, non è più quella dei nostri genitori che conteneva l’attesa, non è più quella della mia generazione che conteneva la libertà, la distanza di oggi è mera distanza, vestita di una parvenza di condivisione per mezzo di strumenti mediatici sempre più immediati e diretti, svuotata dei suoi contenuti simbolici e psichici. Sì, svuotata dei suoi contenuti simbolici e psichici, perché insieme ad essa stiamo perdendo anche una delle risorse più preziose dell’essere umano, l’immaginazione, e con essa l’immaginario intrinsecamente legato alla distanza, la capacità di proiezione di un me in una dimensione condivisa in cui l’altro proietta un sé per incontrarsi in un terreno franco in cui sono le nostre immagini interne a stringersi la mano, in cui le nostre fantasie dell’altro si sposano con le fantasie che l’altro ha di noi.

Peggiore di una realtà privata della realtà, è una realtà privata della realtà e dell’immaginazione, immaginazione come strumento di conoscenza di sé e del mondo, di curiosità, di mistero, di ricerca, del chi sono Io e del chi sei Tu, immaginazione come inconscio che prende forma e si esprime, in un desiderio, in un’illusione, in un déjà-vu che replica il nostro passato, ma un’immaginazione che pur sempre parla di noi e del mondo che dentro ci abita. Immaginazione come una scatola di miti che ci offrono veritiere e dinamiche fotografie delle nostre segrete stanze e delle stanze delle altrui anime. Se è vero che tale immaginazione, lontana dal senso e dal contenuto romantico che siamo soliti attribuirle, viene ancor di più alimentata dalle parti di noi non in luce, dai misteri che coinvolgono ed avvolgono le relazioni umane, dal non detto, dal non rivelato, dal non mostrato, non dovrebbe meravigliare la perplessità che un fenomeno come Facebook può suscitare. Oggi siamo o finiremo con l’essere solo attori e spettatori di uno spettacolo già rivelato, già annunciato, già deciso, in cui il sentito è il già espresso, o poco più.

Mi torna in mente un canzone che qualcuno della mia generazione ricorderà, “Le passanti “ di De André, in cui il pensiero è rivolto alle donne non conosciute, alle donne la cui vita si è avuto solo il tempo di immaginare, a quelle intraviste su un treno, in un attimo di libertà o nella fretta di una giornata qualunque. Questa alchimia non è riproducibile. E non c’è rappresentazione o messa in scena delle nostre vite che possa eguagliarle ed aprire in noi quei sentieri interni di immagini, di voci, di vuoti, che siamo noi e che, forse, ci raccontano di più di una fotografia. Non credo negli assolutismi, pertanto, non credo ci sia uno strumento di comunicazione e conoscenza buono ed uno cattivo ma c’è un uso buono ed uno cattivo ed è questo ciò su cui tutti, me compreso, dovremmo riflettere. Se consideriamo cattivo tutto ciò che impoverisce l’uomo, allora dirigiamoci verso la ricchezza e la bellezza, perché no, anche solo di uno sguardo e chissà che davvero non incontreremo “Le vite degli altri”.

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