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Il corpo e il conflitto delle emozioni – Alexander Lowen

27/10/20070

L’atteggiamento scientifico promosso da quella condotta intellettuale, che risolve il mondo in un insieme di oggetti definiti nella loro posizione da un sistema di coordinate, e le azioni del mio corpo verso quegli oggetti ha un gioco di movimenti e di forze, è pur sempre un modo di condursi nel mondo, e quindi una particolare modalità dell’esistenza, non l’unica evidentemente, se è vero che esistere non significa immediatamente razionalizzare il mondo ma semplicemente abitarlo, secondo modalità che il più delle volte non sono riflesse.

Abitare il mondo significa “umanizzare” le cose, rendersele familiari, avere nei loro confronti quella sorte di consuetudine che sta alla base delle nostre quotidiane abitudini e delle nostre consumate abilità. Ma per mantenere questo rapporto, indispensabile per abitare il mondo senza dover ogni volta ricominciare da capo, occorre che tra il corpo e le cose sia mantenuto quel giusto intervallo che consente di evitare da un lato la “partecipazione” mistica dei primitivi e dall’altro quel distacco che disanima a tal punto le cose e il mondo che ci circonda da renderlo in- umano. Il mondo dischiuso alla presenza non è un mondo di pura familiarità, l’incontro con l’uomo con la natura non è all’insegna dell’idillio. Ogni cosa dimora avvolta da un alone, e improvvisamente può mostrare un’altra faccia rispetto a quella consueta. La notte che invita al riposo, alla confidenza, all’incontro tra due esseri è anche il regno delle tenebre, dell’oscurità, della minaccia. Il bambino ne ha giustamente paura.

Oggettivate, poste di contro a quella “giusta distanza” di cui si diceva, le cose acquistano quella dimensione familiare senza la quale la presenza non può veramente costituirsi. In questo senso la scienza e il modo scientifico di accertare le cose hanno diminuito la loro potenza ostile, la loro critica aggressiva e inquietante, ma senza sopprimerla. L’emozione che irrompe improvvisa è lì a dimostrare che l’armonia col mondo non è mai così salda e definitiva; che l’imprevisto, l’inatteso, l’inquietante sono sempre in agguato e pronti a sconvolgere la presenza appena esorcizzata; che il cosmo ha la durata di un giorno perché ancora non ha definitivamente rotto i legami col caos che lo sottende e lo nutre. Fuori da un contesto fenomenologico, da quella originaria apertura del corpo al mondo in cui, propriamente parlando, si risolve la nostra quotidiana esistenza, il fenomeno dell’emozione è incomprensibile. Le spiegazioni fisiologiche della scienza, con il loro ricorso al sistema nervoso centrale e periferico, confondono il significato di un fenomeno con le modalità con cui, osservato con una certa metodica, il fenomeno stesso si manifesta.

L’emozione è dunque un certo modo di apprendere il mondo, di comportarsi di fronte a certe cose; non è un disordine fisiologico, ma una condotta organizzata che consente di sfuggire ciò che non si può sostenere. Le lacrime e la commozione che invadono chi si trova, portato dal discorso, a ricordare la perdita di un’amicizia profonda e mai più sostituita, non sono per nulla un disordine espressivo, ma una condotta adeguata a un’esistenza che ancora non può o non vuole ammettere l’irrimediabilità della perdita, il vuoto che si è creato nella propria vita. Non potendo sostenere questo vuoto, l’esistenza non si sostiene e perciò si abbandona a una condotta compensatoria che ha il potere di evocare intorno a sé delle presenze che riducono la sofferenza di un’irrimediabile solitudine. In quella commozione, in quel pianto non c’è un calcolo ragionato, ma la soluzione brusca di un conflitto. Con le lacrime non si può più parlare di ciò intorno a cui si vuole tacere; per non tematizzare quella modalità d’esistenza all’insegna della solitudine troppo dura da sostenere. L’emozione dunque è un mezzo per eludere una difficoltà a cui non si saprebbe reggere, quindi un modo per continuare ad essere, nonostante tutto, al mondo. Se questo è il significato dell’emozione, per scoprirlo non dobbiamo andare a cercarlo, come fa la psicoanalisi, nell’inconscio, quasi che l’emozione sia l’effetto manifesto di una causa latente, perché allora, nonostante l’attenzione che la psicoanalisi ha sempre mostrato per il significato dei fatti psichici, di nuovo di troveremmo costretti in quel rapporto di causalità, derivato dalla fisica che, se è idoneo a spiegare le relazioni tra le cose, non lo è per l’ordine delle intenzioni, dei sensi e dei significati. Se il corpo non è una cosa, né semplicemente la sede di fatti fisiologici, ma è una presenza intenzionalmente aperta alle cose del mondo, è in questa presenza che dobbiamo trovare il significato dell’emozione e non in qualcos’altro ad essa estraneo e per di più non manifesto come è appunto l’inconscio, perché altrimenti dovremmo concludere che l’emozione esprime un senso che resta del tutto ignoto a chi si emoziona.

Nell’emozione il corpo non mima un comportamento perché la coscienza ha bisogno di trasformare magicamente il mondo, nell’emozione il corpo si comporta. Quando percorrendo una strada solitaria, ho l’impressione che una figura mi stia seguendo, il brivido che percorre il mio corpo, la paralisi che prende le mie gambe, l’impercettibile tentativo di accelerare il passo senza dar nell’occhio, l’alterazione del ritmo respiratorio, nonostante i miei sforzi nel trattenerla, questi “sintomi” che danno corpo alla mia emozione non sono la risposta magica ad un mondo che si vuole annullare, ma sono la vera risposta ad un mondo che è divenuto minaccioso, perché il mio corpo l’ha già magicizzato, quando ha sentito quella persona come “minacciosa”, quando ha “abolito” le distanze reali che ancora la separavano da me, quando ha risolto delle intenzioni possibili o dei rapporti oggettivi in un unico sfondo confuso che poteva solo mettere paura. Questa alterazione magica, che non risolve l’emozione ma la crea, produce un universo analogo a quello del sogno, dove le porte non riparano, le gambe, anche se corrono, non allontanano, le armi impiegate per difendersi non funzionano, perché ognuno di questi oggetti non è percepito per quel che è, ma a partire da una situazione o dallo sfondo di un mondo già catturato dall’atmosfera dell’angoscia. Se la presenza dischiusa del mio corpo è apertura al mondo, allora l’emozione è l’esperienza della vulnerabiltià della presenza. Il sorgere insolito del mondo ha come un suo correlato la vertigine del mio corpo, che nel presentire l’imminenza del terrificante, si sente pervaso dalla sorda minaccia dell’annientamento; per quanto arretra si contrae, si ritrae, e per quanti sforzi io faccia per reinserirmi nella situazione, per tentare nonostante tutto di ri-abitare il mondo, il corpo non mi segue. Forse nessuna esperienza più dell’esperienza emotiva ci rivela come sia fragile la presenza e precario l’equilibrio pazientemente elaborato tra il corpo e il mondo. 

Se è vero che dove c’è il mondo lì c’è anche linguaggio, si comprende perché l’angoscia, sia per sé un fenomeno inesprimibile. Quando il silenzio si rompe e riappare la possibilità di un enunciato positivo, affidato magari a modalità espressive non ancora verbali, ma somatiche come l’ansietà cardiaca, respiratoria, o epigastrica, l’angoscia non c’è più. Con la parola parlata o anche solo allusa, col linguaggio della corporeità, anche se ancora a livello “patologico”, il mondo s’è comunque ricostituito, e con esso l’essere della presenza e il suo paziente ricucire sensi e significati in un attimo profondamente lacerati. Ancora una volta il linguaggio del corpo si offre a reintrodurre l’esistenza nel mondo, in un mondo che è stato sottratto al “panico” per essere riconsegnato alla “cura”.

(Alexander Lowen)

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